Siamo menti attente e curiose e abbiamo bisogno di dare un nome alle cose. Lo facciamo per riuscire a condividerle con gli altri, per poterne parlarne, per capirci.
Questo è il motivo per cui quando un bambino piccolo indica qualcosa, chi sta con lui dá un nome a quell’oggetto aiutandolo a racchiudere in un unica parola tutto ciò che vede (il colore, la forma, le dimensioni etc).
La stessa cosa vale per le emozioni: imparare a riconoscerle e a darci un nome è un processo fondamentale della crescita di un individuo perché solo quando racchiudiamo in una sola parola tutte le sensazioni fisiche e corporee che percepiamo, riusciamo a condividerle con gli altri, a chiedere eventualmente aiuto o semplicemente ad esprimere ciò che proviamo.
Dare un nome alle cose è quindi utile per metterci in relazione con gli altri, e quando queste “cose” sono emozioni o pensieri, sapere che nome hanno è rassicurante. Faccio questo pensiero ogni volta che ripenso alle persone che incontro, a quelle che mi dicono “voglio capire cosa mi sta succedendo”, in termini di salute fisica e psicologica.
Vi è mai capitato di provare sollievo dinnanzi ad una diagnosi?
“Suo figlio ha un disturbo dell’attenzione”
“Ecco perché non sta mai fermo e non riesce a studiare più di 15 minuti di seguito!”
Oppure: “la sua tiroide signora è lenta”
“Ecco perché continuo ad ingrassare nonostante gli sforzi”
O anche: “sono omosessuale”
“Ecco perché sono sensibile come una donna”
Questi banalissimi esempi servono solo per portare l’attenzione sull’importanza che ha il dare un nome alle cose.
Le persone cercano continuamente di capirsi, di darsi una spiegazione del dolore che provano, dei comportamenti che mettono in atto, delle difficoltà da cui non riescono ad uscire. Avere una diagnosi è confortante perché rimanda all’esterno la causa di ciò che proviamo (“non è colpa mia ma sono così perché…..”) e, il più delle volte, anche la soluzione (uso di farmaci, interventi di supporto, etc)
Sicuramente i disturbi esistono e meritano di essere considerati come tali ma troppo spesso si usano paroloni medici per denominare atteggiamenti e modi di essere che solo vagamente assomigliano ad un disturbo vero e proprio. Dire “sono depresso” non è la stessa cosa di dire “ho una diagnosi di depressione”.
Nel primo caso mi sento giù, affaticato, triste, senza speranza e penso di non essere in grado di reagire e per questo non vedo la luce in fondo al tunnel.
Nel secondo caso, questo malessere dura da almeno 6 mesi, invalida le mie attività quotidiane (igiene personale, lavoro, alimentazione), ha spesso una componente ereditaria e segue una serie di altri parametri indicati nel DSM, la bibbia dei disturbi psichiatrici.
Quello che noto spesso nelle persone che seguo in terapia, ma non solo, è il bisogno di dare un nome alle loro difficoltà, la necessità di sapere che c’è un unico e chiaro motivo per cui si sentono così e quindi una soluzione chiara e precisa.
Purtroppo o per fortuna però, le vere diagnosi sono piuttosto rare se parliamo in termini di percentuali e, in ogni caso, una buona parte di esse non ha comunque delle soluzioni predefinite.
Come dobbiamo dunque comportarci? Come se fossimo unici e speciali!
Le risposte alle nostre domande sono già dentro a noi stessi e con esse anche le alternative possibili. Smettiamo di pensare che quello che proviamo abbia una causa e cerchiamo piuttosto di capirne i motivi.
È il nostro modo di guardare alla vita che ci porta a soffrire o a stare bene ed è su di esso che possiamo agire.
Il nostro dolore o la nostra difficoltà possono anche non essere inseriti in un manuale diagnostico ma esistono.
Prima ci mettiamo in testa che capire se stessi è il viaggio più lungo, difficile e complicato della vita, prima smetteremo di cercare le soluzioni preconfezionate e ci concentreremo su ciò che è meglio per noi.